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La forma della spending review tra miti e false credenze

Spesso, quando si parla di spending review ricominciano a fioccare numeri e statistiche che evidenziano come non sia vero che l’Italia costi di più, soprattutto nei termini della pubblica amministrazione.

“Ed io pago”, sentenziava Totò in uno dei suoi film più famosi. Ma effettivamente concentrarsi soltanto su come il numero dipendenti pubblici sia in progressivo calo non è del tutto esaustivo, affinché si giunga a capire se la ricerca del risparmio pubblico (spending review) sia veramente in atto.

E’ vero: si sta cercando di dare qualche “sforbiciata” da qui e da là, ma, in realtà, il sistema della pubblica amministrazione si è evoluto verso nuove forme di collaborazione esterna che incidono sul bilancio, tanto più dei singoli dipendenti interni assunti nei vari rami ministeriali.

Ecco anche perché non si parla più di amministrazione pubblica ma di pubblica amministrazione. Il politico è un pubblico dirigente. Lo Stato è come una grossa macchina burocratica da gestire e ci si può servire, pertanto, di consulenze esterne, le nuove “pesanti” voci sul bilancio dell’azienda pubblica.

Così, suona perentoria ma non nuova la nuova onda d’urto che si intende dare al sistema del lavoro, coinvolgendo prima di tutto i lavoratori del settore privato, e tenendo conto che per il settore pubblico è ben più difficile apportare dei cambiamenti. Pensate un po’ a tutte le proteste per il “congelamento” delle buste paga. I dipendenti pubblici sono più coalizzati rispetto alla sparuta “classe”, se è lecito chiamarla così, dei dipendenti privati.

Ogni volta che si tocca il tasto dolente del turnover e dei dipendenti pubblici, si deve subito cambiare direzione di marcia.

Tornando ad occuparsi dei dipendenti privati, ritornano i battibecchi a cui siamo abituati. Fino ad adesso, al di là del numero dipendenti pubblici, della spending review, si insiste sul voler apportare delle modifiche sulle politiche del lavoro che poco tengono conto delle nuove forme contrattuali, certamente per nulla tutelate e che si vorrebbe sopprimere. Abbiamo più di 50 tipi contrattuali, tra contratti a progetto ed a tempo determinato che necessitano di regole trasparenti e chiare. E forse sono il nuovo futuro, verso una flessibilità del lavoro che non è né pubblica né privata ma si autogenera da sé.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti rischia di creare il solito effetto-domino e non viene ben accolto sia da parte dei lavoratori sia da parte dei datori di lavoro. Per quanto riguarda, la questione del demansionamento, sempre rivolta al comparto dei dipendenti privati, in realtà, così come per l’articolo 18 si è assistito progressivamente ad una sua trasformazione a cui è seguita maggiore arbitrarietà da parte dei giudici (e quindi, ha perduto già dal 2012 molto della sua portata effettiva), anche per il demansionamento l’orientamento della giurisprudenza ne ha attenuato la portata, viste le condizioni di crisi economica nelle quale ci troviamo.

Ancora si ritorna sulle vecchie questioni: numero dipendenti pubblici, contratti a tempo indeterminato, diritti e tutele sindacali, copertura finanziaria e spending review. Ma forse bisogna essere un pochino più audaci, senza dover per forza innescare un “vespaio”, oppure quello è l’intento.

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